Carlo Brighi, considerato il capostipite del liscio come lo conosciamo oggi, nacque da famiglia contadina il 14 ottobre 1853 a Fiumicino, una frazione del comune di Savignano sul Rubicone. Il padre – anch’egli, pare, suonatore di violino – gli fece impartire i primi rudimenti musicali da qualche maestro locale. Carlo Brighi era chiamato col nomignolo di Zaclèn.
L’origine del soprannome sembra esser derivato dalla sua grande passione per la caccia alle anatre, zàqual in dialetto romagnolo, da cui Zaclèn, anatroccolo.
Della sua biografia non ci resta – sotto il profilo documentario – quasi nulla, se non notizie essenziali che riguardano la sua famiglia, i suoi frequenti spostamenti (seppur in un ristretto pezzo di Romagna), la sua formazione, in parte autodidatta, di musicista colto, la sua netta propensione politica (di cui è testimonianza l’amicizia con Andrea Costa), la sua altrettanto decisa inclinazione a dare impulso e popolarità alla musica da ballo. Ci rimangono di lui due ritratti sbiaditi che non valgono però la descrizione fisica che ne fa il suo estimatore Aldo Spallicci nell’articolo a lui dedicato nel 1912 sulla rivista “Il Plaustro”. Il brano racchiude non poche chiavi di lettura non solo di quanto Brighi fosse amato, idolatrato persino, come poteva esserlo un leader politico o un capo carismatico del tempo, ma di quanto fosse diventato un emblema dei romagnoli “travolti dal ballo” e travolti insieme dal trasporto per la musica e per la politica, i cui circoli disseminati ovunque si contendevano Zaclèn come un marchio di qualità. Spallicci lo cita nelle sue poesie in cui il dialetto incalza e illumina la forza delle immagini, come la melodia ardente, e nostalgica insieme, dei suoi valzer. Lo scrittore e giornalista cervese Rino Alessi lo ricorda nei suoi romanzi di ambiente romagnolo. In Calda era la terra si racconta della casata dei Balach “posseduti dal demone della danza”, il cui vecchio, e Gagg, praticava tutti gli stili del valzer, aveva chiamato le figlie Tersicore e Euterpe, aveva iniziato i maschi alla militanza politica e alla musica da ballo, di cui conoscevano tutte le orchestre, tra le quali la più famosa rimase per molto tempo quella di Zaclèn: “Due violini primi, un violino secondo, una chitarra, un contrabbasso e un clarinetto gorgheggiante a orecchio come un usignolo. Zaclèn, con i suoi valzer travolgenti faceva impazzire i ballerini. L’orchestra suonava senza musica. Il clarino inventava il controcanto con una fantasia inesauribile. Il contrabbasso batteva il tempo sulla corda con il fragore di una cannonata. Si portava dietro una misteriosa cassetta sulla quale poggiava il puntale dello strumento per rinforzare il suono” (Il Ponte Vecchio, 2000, p. 179). Ne parla ancora ne La coltellata e altri racconti (“Intermezzo musicale”) a proposito della moda dei concertini che “andavano in giro per le campagne a rallegrare i circoli politici repubblicani o socialisti” (Il Ponte Vecchio, 2001, p. 63), che tenevano ad assicurarsi le più ricercate, come “quella “de Zaclèn” un violinista incoltissimo che possedeva il ritmo della danza per istinto. Ballare il valzer “cun e Zaclèn” avendo tra le braccia una “bela mora / ch’ la passa e bosch e la ne scrola” era un modo infallibile di arrivare ai vertici dell’ebbrezza” (p. 66).
La grande rinomanza di Carlo Brighi aveva finito persino per identificarlo, per ignoranza o per empatia, con un interprete popolare, lui che aveva suonato con le migliori orchestre teatrali del tempo. Una figura leggendaria, nella immediatezza della sua popolarità, della reiterazione e ritualità dei gesti, cari alle consuetudini dei ceti popolari: la fisionomia bonaria, i capelli unti e lucidi di piuppein, un antenato della brillantina, l’invocazione corale dei ballerini taca Zaclèn, i tre colpi di tacco come iniziazione al ballo, lo sbracciarsi sulla scena senza risparmio.
Anche tenendo conto di situazioni congiunturali che abbiano favorito la sua vocazione per la popolarità del ballo, gli anni del debutto e della affermazione di Brighi coincidevano con lo sviluppo del turismo balneare (seppure di matrice ancora aristocratica e borghese), con il proselitismo politico nelle campagne, con la crescita di un associazionismo politico erede di una tradizione di sodalizi ricreativi in cui si erano camuffati inclinazioni e intenti politici nel periodo repressivo della Restaurazione. La diffusione e l’affermazione del ballo di coppia in Romagna hanno profonde implicazioni politiche. Perché protagonisti e interpreti ne sono stati i ceti popolari, quelli che muovevano dalle campagne verso i centri urbani e il litorale dove sorgevano -rispettivamente- i circoli, le piscaze, i saloni e i villini, le pagode, le piattaforme e dove si ballava e si ballava, mescolando attitudini e abitudini popolari e borghesi, mutuate da quelle élites che ne avevano introdotte le mode per poi abbandonarle con l’incalzare delle nuove tendenze. Dal litorale e dalle cittadine dell’entroterra il ballo di coppia raggiunge le campagne e comincia ad imperversare nelle feste patronali, nelle occasioni festive, entrando in concorrenza con le parrocchie, deviando e mutando le pratiche rituali a favore della nuova, invasiva, inebriante passione.
Lo raccontano articoli della stampa periodica dell’epoca, pagine e bozzetti di scrittori romagnoli che, pur filtrati dalla estemporaneità e dalla fantasia, sono quelli che in molti casi più restituiscono la percezione e la dimensione di una consuetudine radicata e dilagante eppure sfuggente nel suo spessore antropologico e psicologico, perché legata a situazioni non documentate né documentabili, ai sentimenti e alle emozioni di individui e di collettività. L’altra ragione che consacra il ballo di coppia come un fenomeno di eccellenza è strettamente legata al particolare protagonismo politico e associativo della Romagna di quel periodo e alla proliferazione di circoli repubblicani e socialisti in continua competizione tra di loro anche nella organizzazione dei rispettivi momenti ludici, che erano tanti e ricorrenti al punto da suscitare preoccupazioni e moniti da parte dei dirigenti. Ma la Romagna non demordeva. Tutti i circoli ricreativi, di matrice laica e religiosa, avevano assunto un colore politico, in tutti i cambaroun delle campagne, nelle piscaze cittadine, nelle osterie, nelle sedi di associazioni e di partiti, nei teatri, si moltiplicavano le occasioni di veglie e veglioni, di pomeriggi festivi all’insegna del ballo.
Paradossalmente, ma forse neanche troppo, Carlo Brighi, che era stato compagno fraterno di Andrea Costa, esponente del partito socialista rivoluzionario in Romagna, che aveva subito denunce e segnalazioni in quanto elemento capace di esercitare influenza nelle file del suo partito, presenza immancabile nei circoli associativi e nei rituali della sinistra, viene celebrato, a dieci anni dalla morte, nel 1926, nella sede del sindacato fascista di Pievequinta, località di sua abituale frequentazione, nota per adunanze e manifestazioni ‘sovversive’. Durante una festa danzante e commemorativa con orazione di Aldo Spallicci, cinquanta musicisti portano il loro tributo a Zaclèn: musicisti e componenti di orchestre da ballo dell’epoca. Solo per fare qualche nome, Giulio Faini, Romolo Zanzi, Emilio Brighi, Ubaldo Fusconi, Andrea Legni, Secondo Casadei, Arturo Fracassi, Leandro Cicognani, Bruto Gentili, Guido Rossi, Secondo Zanzani, Duilio Comandini. Nel manifesto stampato per la ricorrenza il Comitato promotore esprime un sentimento d’ affetto al “tipico uomo di razza”, all’ “anima nobile e squisita di artista”, che dopo aver peregrinato per i teatri d’Italia con orchestre di eccellenza “preferì la gente semplice delle nostre ubertose campagne”, pronta ad accorrere da ogni parte della Romagna per rendere omaggio a “questa geniale e caratteristica figura di romagnolo scomparso, che godette nella nostra regione di una popolarità veramente singolare”.
Probabilmente ai tempi di Zaclèn , nel clima acceso di novità e di passione politica, le scelte di vita erano guidate e determinate dalla coerenza ideale, unitamente a quel pizzico di avventatezza e di impulsività che sta nel DNA del sangue romagnolo. Brighi, modesto e proletario di nascita, segue la vocazione musicale per passione e con sacrificio, costruendosi una propria professionalità, pur avendo la possibilità di esibirsi in orchestre affermate. Poteva accontentarsi di eseguire le celebri arie degli Strauss, allora in gran voga: decide invece di farne una “versione popolare e romagnola”, perché la musica di Strauss era nata comunque alla corte e nella realtà urbana e raffinata di Vienna ed oltre ad essere ‘straniera’ non si sarebbe adattata alle abitudini e ai gusti coreutico-musicali della Romagna. E qui sta la chiave di volta, il mistero, la suggestione di quel clarino in do complice della provocazione di una frenesia non mitica e ancestrale come quella indotta dal morso della taranta, ma una sorta di rapimento ebbro ed estatico che diviene in Romagna un vero e proprio ‘demone della danza’, scaturito dalla commistione e dal sincretismo tra l’esterofilo, elegante, esemplare valzer di Strauss e il tradizionale e virtuosistico ballo tradizionale, fatto di salti, di acrobazie, di invenzioni, di personali talenti, di varianti locali, che vanno a fondersi e tramutarsi in una invenzione che subito si fa tradizione: quella del ballo romagnolo, che non poco ha a che spartire con gli antichi balli delle campagne e della montagna (saltarello, trescone, furlana, monferrina) ma la cui peculiarità sta nella abilità di creare una nuova consuetudine accogliendo e adattando le suggestioni della contemporaneità attraverso la mediazione di un demiurgo d’eccezione: Carlo Brighi, detto Zaclèn.
Quando il grande antropologo Ernesto De Martino, oltre cinquant’anni fa, conduceva le sue anticipatrici e ineguagliate campagne di ricerca nel sud Italia, fissando, con l’ausilio del magnetofono e dell’etnomusicolgo presente nella sua équipe di ricerca, i canti e le musiche originali della espressività popolare, nelle campagne romagnole, unitamente a ricordi sbiaditi di saltarelli, di tresconi, di monferrine, si raccoglievano sorprendenti perplessità e amnesie circa la propria appartenenza musicale. Perché, nelle campagne come altrove, le musiche travolgenti di Zaclèn, delle altre orchestre e orchestrine coeve, poi di Secondo Casadei, suo erede e creatore di un vero e proprio genere musicale, fra le tante suggestioni della musica leggera, di quella trasmessa dalla radio e dalla televisione, delle mode musicali allora in voga, la musica da ballo considerata come ‘tradizionale’ era quella dei veglioni, delle feste dell’Unità, delle feste dei circoli politici, delle sagre, delle fiere, quella ormai ibrida e irresistibile, creata per il ballo e che non si poteva fare a meno di ballare, quella che unisce la musica al ballo in una vocazione etnica e romagnola. Tanto quella musica da ballo era penetrata ed era stata introiettata negli ambiti popolari da essere ormai riconosciuta come propria. Nella interpretazione e classificazione etnomusicologica la musica, così come la danza folklorica, identificano le espressioni del gruppo etnico di appartenenza e sono strettamente legate ad aspetti rituali ancora funzionali e vivi nella comunità. Il termine folkloristico indica in qualche modo un’operazione riduttiva e una decontestualizzazione rispetto alla tradizione originaria, che viene riproposta in una versione spettacolare, scollegata dall’ambito rituale e rielaborata in personali repertori. I quali possono comprendere tentativi di ricostruzione di versioni originali, rappresentazioni coreografiche in costume, esibizioni di danza sportiva. La definizione di ‘ballo liscio’, più propriamente legata ad ambiti urbani, è riferita a pratiche di danza, derivate dalle rispettive tradizioni , più propriamente riconducibili al ballo ambrosiano, al ballo emiliano, alla ‘Filuzzi’ bolognese. Carlo Brighi e Secondo Casadei sono stati e sono da considerarsi non tanto rappresentanti della musica folclorica piuttosto che di quella folkloristica romagnola ma i creatori di un vero e proprio genere musicale, oggi comunemente identificato come liscio ma che forse, in maniera più propria e pertinente, potremmo definire musica da ballo romagnola.
Quella che pur non antica ha radici profonde, quella che ha saputo coniugare e interpretare inclinazioni e propensioni musicali; quella che ha identificato la Romagna e, nel bene e ne male, ha contribuito alla sua identità locale, regionale, nazionale e universale. Quella di Carlo Brighi, Zaclèn, savignanese, quella di Secondo Casadei, savignanese, di cui andiamo orgogliosi.
Carlo Brighi morì il 2 novembre 1915 a Forlì dove è sepolto. Aveva scritto circa 1200 composizioni musicali. Oggi la sezione “Piancastelli” della Biblioteca Comunale di Forlì conserva il gruppo più consistente di composizioni di Carlo Brighi. Il fondo, donato dalla figlia Angelina, è strutturato in 21 raccolte di parti musicali contenenti 831 composizioni suddivise in 465 valzer, 194 polke, 141 mazurke, 19 manfrine, 10 galop, 1 saltarello, 1 quadriglia.