C’è ancora qualcosa che non sappiamo di Romagna mia e del suo compositore, il maestro Secondo Casadei? Forse no, se facciamo riferimento alla vulgata dell’origine della canzone celebre in tutto il mondo: la sorprendente coincidenza con cui è nata e che ha identificato il musicista con la sua terra, il programma radiofonico di Radio Capodistria che qualche anno dopo l’ha fatta conoscere e apprezzare ben al di fuori dei confini regionali, lanciata poi dai juke box; una delle canzoni più cantate e ballate, interpretata e incisa nel tempo da famosi solisti e complessi italiani e stranieri, tradotta in varie lingue, milioni di dischi venduti. C’è ancora molto da sapere e da scoprire se pensiamo a Romagna mia come ad una tappa cruciale e decisiva, ad uno spartiacque – fra una tradizione di musica e di ballo, ma anche di mentalità e di costume, formatasi in Romagna quasi un secolo prima- e i sessant’anni successivi che hanno consacrato un genere musicale, divenuto poi un fenomeno sociale e imprenditoriale che per decenni ha coinvolto moltitudini di interpreti e pubblici oceanici.
Avrebbe funzionato allo stesso modo Piemonte mio? O Calabria mia? Senza sconfinare più di tanto basterebbe chiedersi se ci sarebbe mai stata una Emilia-Romagna mia. Romagna, “Già il nome, sonoro e ricco di qualità plastiche s’impone subito all’attenzione per la sua pregnanza espressiva. L’affettività è sollecitata da percezioni forti, spesso contraddittorie, soltanto nel ripeterlo” (1). Flaminia, Romania, Romandiola, infine Romagna, un quadrilatero di terra un po’ estense, un po’ bolognese, un po’ marchigiana, per quattro secoli in parte toscana, dapprima etrusca, latina, bizantina, longobarda, pontificia; una terra dai confini “ballerini”, nel significato di non definiti, se non in tempi recenti (2), ma può calzare “ballerini” anche nel senso che quei confini Secondo Casadei li ha disegnati con l’ago della musica e con il filo del ballo.
Di quale Romagna stiamo parlando? Parliamo di cinquan’anni di una Romagna che vanno dal primo decennio agli anni Sessanta del Novecento, protagonista, come il resto della nazione, del passaggio da una società rurale e contadina a quella del boom economico e turistico, che ha attraversato due guerre mondiali e una coloniale, vent’anni di fascismo, che ha visto la Liberazione e la nascita della Repubblica. Di una Romagna che è stata definita “non una regione geografica ma una regione del carattere, un’isola del sentimento. Un pianeta inventato dai suoi abitanti” (3), ridisegnata nei tratti forti di una supposta e romana ancestralità da Benito Mussolini, che aveva contribuito a nazionalizzarne ed enfatizzarne identità e stereotipi, che andavano a sovrapporsi a quelli per altro delineati e alimentati da almeno settant’anni precedenti di lotte risorgimentali, precoci laboratori ed elaborazioni politiche, prorompente vocazione all’associazionismo, tratti antropologici inesorabilmente segnati dalla tendenza al settarismo, al ribellismo e alla violenza; quelli di una Romagna rappresentata nella mentalità diffusa come fucina di anarchici, banditi, fraudolenti, focolaio di passioni eccessive per il cibo, per il sesso, per la politica estrema (4): proiezioni di mentalità intellettuali e comuni che hanno dato vita ad altri pregiudizi diventati poi icone da esportazione: la Romagna del Sangiovese e della tavola di Pellegrino Artusi, la Romagna passionale di Paolo e Francesca, quella del banditismo rozzo e bonario del Passatore, quella poetica e letteraria della Cavallina storna e di Sangue romagnolo, la Romagna felliniana dei Vitelloni e di Amarcord, quella di una trasgressione antica evoluta nella più recente incoronazione della Rimini balneare a capitale del divertimentificio.