Come si crea o si diventa un mito? Non parliamo dei miti -veri o falsi che siano- costruiti a tavolino, fondati su potenti supporti mediatici, quelli, per intenderci, di uno star sistem tanto mistificante quanto vacuo e lontano dalla dimensione umana e reale. Parliamo di un mito che nasce e si sostanzia nel sentimento profondo della gente, coinvolgendo ideali, aspettative, condivisioni, emozioni in un impulso di appartenenza, di affetto, di scambio e di gratitudine. Ad innescare questo sentimento sono origini mai sconfessate e tradite; sono la coerenza di scelte di vita, di orientamenti perseguiti con caparbia e tenacia, con una ostinazione che non cede a compromessi, che non demorde e muta direzione di fronte agli ostacoli perché sostenuta dalla convinzione che prima o poi ne avrà ragione. E’ la sintonia comunicativa che deriva dalla certezza di trasmettere valori forti, collettivi e partecipati. Per diventare un mito occorre fare della passione individuale un’aspirazione comune, della vocazione una missione. Occorre nascere con una propensione, vivere con un destino, morire per la necessità di esserci sempre. Secondo Casadei non è scomparso sul palcoscenico ma è come se lo fosse stato, perché voleva esserci per la sua gente, per il suo pubblico, a tutti i costi. Una scomparsa che – in contesti e per ragioni molto diverse – ha qualcosa in comune con quella di grandi e popolari leader politici, come il sindacalista Giuseppe Di Vittorio o il segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer, entrambi sacrificati sul palco per parlare a folle immense, che erano la loro famiglia. L’ultima volta che Secondo Casadei diresse sul palco, a pochi giorni dalla morte, a Porto Fuori di Ravenna, dovevano aiutarlo ad alzarsi dalla sedia e una volta in piedi riusciva a guidare l’orchestra. L’aveva fatto altre volte, a seguito di gravi incidenti che lo avevano lasciato ingessato dalla testa ai piedi, aveva dovuto farlo per tenere unita la sua orchestra, per continuare a comunicare con il suo pubblico. Questa volta era diverso: era reduce da una trasferta al “Perla” di Torino, un locale da ballo a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo perché suonare lì era per lui come dirigere un’opera alla Scala. Stava già male e si era strapazzato, sudava molto e si appoggiava a Raoul, cercando di nascondere il suo malessere.
In molte case di gente comune, di appassionati, ballerini, musicisti, estimatori non manca un ritratto di Secondo Casadei, un quadro, un portaritratti, una reliquia, un modellino, una miniatura, una sagoma; all’ingresso, in salotto, nello studio, in camera da letto; tempo fa accanto al ritratto di Garibaldi o di Mazzini e della Madonna o del Sacro Cuore o del Santo più venerato, come un nume tutelare. Nelle tante testimonianze orali raccolte nel tempo, conservate dalla Casadei Sonora e ora anche dal Liscio@museuM, il museo virtuale di documentazione della tradizione della musica da ballo romagnola, le esplicitazioni d’affetto sono spontanee e imponenti, a volte vere e proprie dichiarazioni d’amore, del genere “Volevo più bene a lui che a mia moglie”, oppure “Sarei andato con lui nella cassa morto”. La gente gli voleva bene per la passione che sapeva infondere alla sua musica e la capacità di comunicarla come un sentimento di vita, che si legava alla quotidianità dell’esistenza e ai suoi momenti eccezionali, solenni, festosi, divenendone una componente essenziale nella memoria e nel vissuto. La gente gli voleva bene perché si sentiva rappresentata, non soltanto dalla sua musica ma dalla confidenza e dalla familiarità di un atteggiamento sempre pronto a recepire, ad ascoltare, a comprendere, a condividere ciò che per le persone era soggettivamente importante. Gli volevano bene perché sentivano di ricambiare lo stesso sentimento di delicatezza e di affezione che non era mutato con la considerazione e il successo dapprima riaccesi poi divampati dalla seconda metà degli anni Cinquanta.