La Romagna di cui parliamo è quella di luoghi, di musica, di legami sentimentali con una terra che ha fatto della musica da ballo uno dei fili conduttori dei suoi contesti sociali e aggregativi; una Romagna simbolicamente raccolta e racchiusa in una canzone a valzer dalla melodia e dalle parole di una apparente e disarmante ingenuità; parliamo di mitologie e leggende che in una sorta di caleidoscopio riflettono e sovrappongono infinite rappresentazioni di una regione immaginata e immaginaria. La Romagna novecentesca dei luoghi di vacanza del litorale ma ancora ottocentesca nell’entroterra contadino, peraltro acceso e rigurgitante di passioni politiche. Una Romagna la cui “spiritualità prorompeva gagliarda, inquieta, aggressiva e generosa tra quattro punti cardinali: la politica, la musica, il ballo e l’amore” (5). Una Romagna estroversa e scontrosa, precoce e arretrata, spavalda e timida, impulsiva e reticente. Una Romagna che dalla metà dell’Ottocento ha partorito e cresciuto generazioni di musicisti, dove si è tracciato il perimetro di un “triangolo ballerino” il cui fulcro vitale “ha gli estremi in Cesenatico, Savignano, Cesena ed il centro ombelicale, ma non geometrico, sentimentalmente fissabile tra Sant’Angelo di Gatteo e Fiumicino” (6). Ombelico ma anche linea di confine, duemila anni addietro, fra il territorio di Roma e quello delle colonie galliche, attraversato parallelamente alla costa dal grande asse viario della via Emilia e longitudinalmente dal fiume Rubicone.
Sarà che le parole di Romagna mia sono naives ma non banali ed effimere come canzoncine coeve del genere I pompieri di Viggiù o I Cadetti di Guascogna. Sarà che altrettanto semplice è la sua melodia, che unisce la strofa in minore, evocativa di un sentimento nostalgico, al ritornello in maggiore che è una appassionata dedica d’amore alla propria terra: sta di fatto che quella canzone diventa un inno nazionale, una marsigliese italiana che fiorisce, insieme al sorriso, sulle labbra di romagnoli e italiani, di emigrati, di turisti della riviera. A crearla non poteva essere che un “romagnolo purosangue”. E’ una canzone diversa da quelle, in prevalenza brani musicali, con cui Secondo Casadei aveva fatto della sua musica da ballo un vero e proprio genere. Spiegarne il perché lo lasciamo dire ai musicologi ma già la sua prima composizione, Cucù, rivela gli elementi di uno stile inconfondibile, fatto di “una linea melodica semplice e accattivante, un accompagnamento martellato, un controcanto ricco e preciso, tutti elementi che faranno dei suoi brani irresistibili ‘inviti alla danza’ ” (7). Musica da ballo a cui impropriamente è stata attribuita la denominazione di folklore romagnolo, più noto come liscio, da quando il testimone è passato al nipote Raoul. Forse non poi così impropriamente, perché da un secolo e mezzo a questa parte i romagnoli hanno considerato quella musica da ballo la loro tradizione musicale e popolare per eccellenza, mentre quella folklorica si era andata gradualmente estinguendo. Il che è successo perché nella seconda metà dell’Ottocento, periodo di grandi rivolgimenti sociali che hanno dato luogo a significativi mutamenti nelle abitudini aggregative e associative e nei gusti musicali e coreutici, l’impatto con i nuovi stili di ballo di provenienza mitteleuropea segue in Romagna modalità speciali, dando luogo a consuetudini che non si perdono nella notte dei tempi ma hanno nomi e cognomi e hanno generato una delle più belle e suggestive storie che si possano mai raccontare.