Nell’ultimo decennio del secolo scorso le cronache dei periodici balneari si riempiono dei resoconti delle feste da ballo e dei successi delle stagioni estive, descrivendone protagonisti, esibizioni, nuovi locali alla moda e, naturalmente, i balli in voga, tra cui il valzer era il preferito e il più elegante. Con il valzer avevano inizio le veglie danzanti e a suon di valzer terminavano, all’alba. Nello stesso periodo viene pubblicato un racconto di Alfredo Oriani, ispirato ad un fatto realmente accaduto in un paese del faentino, al confine con la Toscana: lo stupro violento e inconsapevole di un padre nei confronti della figlia durante una sera di carnevale. La rappresentazione è quella di uno squarcio paesano, dove il ballo serale si era trasferito dall’osteria in una casa privata chiamata il “pozzangherone” (termine peggiorativo rispetto al già poco attraente “camerone” di campagna), due stanze di cui la cucinetta era adibita a bar e l’altra riservata al ballo. Per entrare si pagava un soldo, ma il guadagno stava nel bere: ogni bicchierino “costava due soldi e non valeva forse due centesimi” (25), mentre le “zucchette di aleatico […] si ballavano sempre a sfida: uno scommetteva di piroettarvi intorno mulinando con la donna senza mai urtarvi del piede; nel caso contrario doveva pagare, ma se gli riusciva invece toccava all’avversario. Ed era il ballo più festoso, che eccitava tutti gli orgogli e tutte le curiosità come gli a solo in teatro” (26). In un microcosmo sperduto e quasi dimenticato stanziavano però i carabinieri, la maggior parte degli uomini assistevano in piedi rimanendo estranei al rito del ballo, le madri osservavano sedute le figlie, i suonatori si esibivano su una tavola sorretta da due sedie; si pagava e si beveva, per consuetudine, dopo ogni ballo, nel fumo, nel sudore, nella puzza, nella polvere. Ma l’impatto con il ballo di coppia era in qualche modo avvenuto: la monferrina, “intonata con una veemenza di fanfara sugli acuti più stridenti dell’organetto, si allentava ogni tanto nella scarica di quattro passi di polka per riprendere daccapo sopra in un ritmo di una monotonia accorante, senza che alcuno se ne impressionasse” (27). Già si facevano notare le “bizzarrie” del ballo: c’era chi galoppava impettito e chi curvo, cingendo la donna alla vita, avvicinandole il volto e c’era chi già ballava stretto lasciandosi andare a parole ed atti scurrili, sudando copiosamente con la bocca semiaperta.
Nel periodo fra le due due guerre si continua a ballare molto, malgrado la passionalità e l’irruenza del ballo di coppia romagnolo non sia per nulla in sintonia con l’orientamento del fascismo alla disciplina e al rigore ginnico-sportivo, che dovevano prevalere anche nelle manifestazioni ludiche. Impedire o disciplinare le feste da ballo significava per altro entrare in conflitto con l’incalzante sviluppo del turismo e della mondanità vacanziera, che si dispiegava nelle località costiere all’insegna dell’ostentazione sensuale dei corpi, dell’esaltazione e dell’ebbrezza dei balli alla moda, delle parole d’ordine “Credere obbedire ballare!” (28). Nelle campagne e nelle borgate, nei circoli ricreativi riconvertiti al fascismo, si continuava a ballare in occasione di feste e di sagre, con le orchestre costrette a esibirsi su tavolati quasi schiacciati al soffitto, in estate su palchetti improvvisati all’aperto. Protagoniste di virtuosismi vecchi e nuovi erano sempre le sfide fra uomini, consumate sui tavoli a suon di valzer, di polke di striscio con l’inchino, di mazurche “a punta e tacco”, come le ballavano i vecchi. Le sfide eccitano i cambiamenti, le innovazioni, le invenzioni necessarie a meravigliare e stupire, ad accentuare l’abilità di ballerini e musicisti. Basti pensare che l’orchestra di Secondo Casadei debutta nel 1928 per considerare quanto il ballo fosse in quel periodo vitale. Con la guerra passi, invenzioni e virtuosismi si perdono, perché, eseguiti spontaneamente e tramandati a memoria, vengono un po’ alla volta dimenticati in quanto non più legati alla sperimentazione di pratiche costanti. La vicenda del ballo romagnolo dopo il secondo conflitto mondiale subisce dapprima una fase di abbandono, umiliata e travolta dall’impazzare delle mode musicali americane, poi, di pari passo con la tenacia e il ritorno al successo della musica, anche il ballo riconquista la fisionomia perduta attraverso l’impegno di anziani e giovani ballerini a ricostruire stili, passi, variazioni, sino a giungere ad una vera e propria codificazione delle tecniche di base che preludono al riconoscimento delle danze folk come disciplina sportiva (29).
Tutto questo avviene quando, negli anni Sessanta del Novecento, Secondo Casadei aveva fatto della Romagna un emblema non solo come “appartenenza geografica di un repertorio” (30), ma di un genere musicale vero e proprio, inaugurato con le composizioni e lo stile musicale della sua orchestra negli anni Trenta-Quaranta. Avviene ancora più particolarmente quando, alla morte dello zio Secondo nel 1971, il nipote Raoul Casadei esporta oltre i confini regionali e nazionali il liscio romagnolo, insieme a tutta la Romagna, con un successo senza precedenti ma mutando radicalmente le caratteristiche di una musica che tutti potevano ballare proprio perché non poteva più essere ballata. Sin dalle origini la musica da ballo romagnola si era legata a mestieri e professioni, perseguendo una vocazione imprenditoriale dovuta alla sua larga e capillare diffusione, ma la massiccia commercializzazione prende le mosse dal decennio miliardario, quello in cui si moltiplicano le orchestre con fatturati da capogiro, fioriscono e si diffondono le scuole di ballo con repertori codificati di danze folk, tornano in auge e nascono come funghi le balere, fittamente concentrate in Romagna e disseminate nelle regioni del Nord, non oltre però i confini toscani e marchigiani. Sull’onda della domanda e del successo sorgono immensi locali, cupole prefabbricate, vere e proprie cattedrali della musica con piste differenziate, arredi e offerte spettacolari. Una per tutte, la Ca’ del Liscio di Ravenna, la grande impresa naufragata di Raoul Casadei, che l’aveva immaginata come un complesso all’americana funzionante 24 ore su 24, come un tempio destinato alle famiglie e a tutte le età, con impianti sportivi, parchi di divertimento, ristoranti tipici, pizzerie, night club e balere per il liscio (31).