Nell’incrocio fra i due secoli anche il popolo contadino abbracciava altri credi, dividendosi fra i due riti, il sacro e il profano, quello della chiesa e quello della “cameraccia”. Ne è significativo scenario una borgata dell’entroterra, esemplare di tante altre, dove il parroco aveva addobbato la porta della chiesa con un drappo rosso, in segno di festa, aveva prenotato la banda e fatto preparare un pranzo comunitario, mentre, dal canto loro, i repubblicani avevano issato la bandiera bianca e rossa in cima alla casa del popolo e avevano organizzato un gran ballo che durava tutto il giorno e tutta la notte per celebrare la controfesta. La gente, che sino a poco prima si raccoglieva a torme intorno alla chiesa, passava senza fermarsi per correre al ballo, nella bella casa spaziosa che aveva sostituito la prima angusta sede in cui si ballava tra mischie polverose e spargimento di sudore, in cui i repubblicani avevano fondato il loro circolo e, sulle ceneri delle vecchie danze campestri, con il valzer e la polka erano riusciti a rimettere in vita il ballo, acceso dai guizzanti suoni del clarinetto. Se il prete suonava le sue campane, i repubblicani suonavano il loro clarino. L’attrazione irresistibile della musica travolge le coppie, il sudore riga i volti infiammati, le bocche si spalancano, appena il brano si conclude “i dannati urlano a furore i bis della polca formidabile che riecheggia nelle cavità viscerali e solleva i corpi da terra […]. Ognuno riafferra la sua ballerina che stava pronta, e la polca serrata e gagliarda riha [sic] in sua balia la gran massa dei corpi avvinti, che d’attimo in attimo perdono il loro enorme peso” (18). Passa la processione, preceduta da bambini e seguita da vecchi, mentre nella “cameraccia” “il ritmo incalzante e la concitazione dionisiaca della polka sussultoria han ceduto agli indugiamenti e alla sensualità molle di un valzer lento” (19).
Nella Romagna di fine Ottocento, quella Romagna che aveva fatto della sociabilità ludico-festiva e politico-associativa una delle dinamiche fondamentali del suo sviluppo nella nascente nazione, il ballo di coppia impazza dovunque e in tutte le categorie sociali. In ambito urbano erano diffuse le piscaze (pescacce), feste da ballo pubbliche allestite in grandi locali spogli e dimessi. Nelle campagne, dove si ballava alla butèga, spazi improvvisati accanto a spacci commerciali o osterie, il ballo si era trasferito nelle “cameracce”, luoghi di ritrovo per il gioco delle carte e il consumo del vino, che all’occasione si prestavano per feste e veglie danzanti, ospitando contemporaneamente le sedi dei circoli politici. Proliferano e si moltiplicano club, circoli cittadini, feste e ricorrenze di un calendario civile e laico che si affianca e compete con quello religioso. I ricorrenti “veglioni rossi” hanno ormai attribuito una precisa connotazione di classe alle diffuse feste da ballo organizzate dai circoli politici e non molto diverse, nelle loro modalità, da quelle di altri circoli ricreativi, benché ritualizzate dall’immancabile intonazione, alla mezzanotte, dell’Inno dei lavoratori.
Il calendario festivo comunitario, ancora legato alle scadenze dei cicli della vita (battesimi, matrimoni, funerali) e a quelli stagionali (mietitura, fine del raccolto, vendemmia), scandito da fiere, da sagre, da ricorrenze religiose, si arricchisce di appuntamenti coincidenti con le inaugurazioni di leghe, di circoli, di società operaie, di bandiere, di meeting, con gli onomastici di apostoli laici come Mazzini e Garibaldi (19 marzo), con l’anniversario della Repubblica romana (9 febbraio) e della Comune di Parigi (18 marzo), della grande ricorrenza internazionale della festa dei lavoratori (1° maggio). In occasione della Settimana rossa si erano di nuovo innalzati gli alberi della libertà, intorno a cui si suonava e si ballava, non più ai ritmi francesi delle “gioconde carole” ma a quelli di valzer infuocati, alla melodia di una fisarmonica, di un trombone e di un clarino (20). Alla vigilia della prima guerra mondiale il legame tra ballo e politica aveva raggiunto il suo culmine, sfruttando ogni ricorrenza e circostanza per scatenarsi. Alle feste delle parrocchie rurali i giovani andavano in bicicletta, da un paesino all’altro, cantando canzoni politiche, i ragazzi con le cravatte e il garofano rosso all’occhiello, le ragazze con la camicetta fiammante. Ballavano all’impazzata nel caldo asfissiante dei “cameroni”, le giovani ballerine instancabili, i loro compagni ansiosi di esibire la loro bravura “con spiccar salti, dimenarsi, volteggiare nei turbinii del valzer o del galoppo” (21). Inutilmente malvisti e osteggiati dalle direzioni di partito, imperversavano in città i “veglioni rossi”: una tradizione interrotta negli anni del fascismo – che a sua volta non rinuncerà per altro ai propri “veglioni neri” -, che riprenderà nel secondo dopoguerra con i gran balli organizzati dai due storici partiti della sinistra, con il Partito comunista, che farà delle feste dell’Unità uno dei più popolari e ricorrenti appuntamenti del ballo liscio.