Ci vorranno parecchi anni perché l’orchestra Casadei riprenda a funzionare a pieno ritmo e quando succede è un fuoco di fila, un crescendo fino alla fine, un quindicennio all’insegna del successo planetario e inaspettato di Romagna mia. Dopo la guerra i gusti e le tendenze musicali erano cambiati. E dire che con i ritmi americani Casadei si era confrontato continuamente, ancora prima di cominciare, quando negli anni Dieci del Novecento imperversavano in riviera balli sincopati come il fox trot, l’one step, il charleston, il tango; poi nel periodo fra le due due guerre, quando il jazz e lo swing, malgrado i divieti del fascismo, erano comunque penetrati con la forza dei ritmi e degli strumenti, Secondo ne aveva colto e assecondato la forza irresistibile e trascinante. Stavolta era diverso, la ferita della guerra aveva fatto smarrire i riferimenti e non c’era stato né tempo né modo di rimettersi in sintonia con l’ondata travolgente delle mode americane, a cui orchestre e orchestrine rinate si adattavano di buon grado. Casadei avrebbe potuto fare lo stesso, primeggiando senza fatica per le sue capacità di caporchestra, di musicista e di arrangiatore. Ma la passione per la sua musica prevale sulle umiliazioni che deve subire persino nel suo borgo natale, dove i luoghi del ballo sono gli stessi cameroni di una volta.
Subito dopo la guerra la famiglia si era trasferita a Savignano, dapprima rifugiata in una stalla assieme ad altre famiglie perché la città era completamente distrutta, dal 1946 in una piccola abitazione lungo corso Perticari, un rettilineo di case che non superavano i due piani, una attaccata all’altra. A due passi sorgeva la splendida Villa dei Bilancioni, facoltosi proprietari terrieri, che si poteva vedere dalla finestra del primo piano della casetta.
La casa di via Perticari: nell’ingresso c’era un gran corridoio lungo, sulla destra la prima camera era lo studio del babbo, più avanti c’era la scala che andava di sopra e poi c’era la nostra cucina in fondo. Il babbo si svegliava sulle undici, o a seconda di quando era rientrato la notte, si sbarbava -mi piaceva molto guardarlo quando si faceva la barba, si faceva i baffetti, che però non riusciva a mettere a posto bene; allora per i baffetti andava quasi tutti i giorni da Nino il barbiere, che era in corso Vendemini, e glieli metteva a posto. La mamma gli correva dietro, gli chiedeva quale divisa dovesse indossare la sera, perché doveva prepararla, poi lui andava in piazza, passava dal sarto, che si chiamava Rocchi, si fermava a fare due chiacchiere, magari raccontava della sera prima o di quello che aveva in mente di fare. Dopo andava nel caffè, nel Bar Centrale, si prendeva l’aperitivo con gli amici; poi tornava a casa, la mamma mi mandava fuori dalla porta a vedere se arrivava, che veniva dalla piazza; “Mamma, butta giù la pasta che il babbo sta arrivando!”, intanto lui arrivava, in modo che mangiava sempre la pasta cotta a puntino (13).
Qualche anno dopo potrà permettersi una piccola casa a Gatteo, dove trascorre con la famiglia il periodo estivo, una casa a cui era affezionatissimo e a cui dedicherà Casetta mia, quella che poi sarebbe diventata Romagna mia.
Tirò fuori questo valzer che si chiamava Casetta mia, dedicato alla casetta nostra di Gatteo Mare. L’avevamo da qualche anno prima, era una casetta che aveva fatto con la Cooperativa Muratori e Manovali e con la Cooperativa Falegnami di Savignano. Aveva fatto questa casetta che era frutto dei primi diritti d’autore, la fece su suggerimento dello zio Dino, che era un uomo molto più pratico di lui, lo zio Dino disse: “Ma perché non ti prendi qualcosa giù al mare che vendono la terra – mi pare che fosse la terra dei Marchesi di Bagno – dai, fatti una casetta, la paghi a poco a poco”, perché appunto c’erano queste cooperative che favorivano molto nei pagamenti, fece questa casetta con tre appartamentini: camera, cucina e stanza da letto. Aveva cominciato a piantare tutti i fiori, gli alberi, lui era talmente innamorato che fece questa Casetta mia, “Non vedo l’ora di tornare, quando sono fuori, a suonare in questa casetta…”, come se fosse una reggia (14).
Con il successo giungeranno la necessità e la possibilità di una residenza più grande e adeguata, che sarà Villa Casadei, abitata ancora oggi dalla figlia Riccarda e dalla famiglia. La ripresa avviene ancora una volta con la creatività dell’innovazione: Casadei lancia le sue irresistibili polche atomiche, “clarinetti e sax che si inseguono e si accapigliano mentre la ritmica squadra e sincopa il tutto con esattezza germanica e aggressività romagnola” (15). L’obiettivo è sempre lo scatenamento e la sintonia con il ballo: “Atomico vuol dire prorompente, dirompente, vulcanico, eccezionale. Cosa c’è di più dirompente, vulcanico di una polka? Non ha l’energia estroflessa, ostentata, del boogie-woogie, ma un’energia compressa e repressa, scattante, cronometrica e inesorabile. Nella polka romagnola automatismo e fantasia coincidono: basta osservarla ballare. Un turbinio di gambe, un piroettare a molla, un rimbalzare su se stessi, un prevedibilissimo ma sconcertante gioco di articolazioni, di piedi e di mani” (16).
Le consuetudini e i luoghi degli “affari” dei suonatori, degli incontri e dei contratti, erano rimasti dopo la guerra gli stessi e coincidevano con i giorni di mercato, che prima si raggiungevano andando in bicicletta fino a Gambettola, poi in treno: il lunedì a Forlì in piazza Saffi, al bar chiamato Degli orchestrali, poi Primo Maggio e Centralbar, il mercoledì a Cesena, all’Emporio musicale Francolini, e a Ravenna.